La Stampa: l'unica soluzione per le carceri è il lavoro

calendar Venerdì 7 Giugno 2013

Non è la prima volta che il presidente Napolitano denuncia la situazione di estrema gravità delle carceri italiane. Nella ricorrenza del 196° anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria lo ribadisce ancora una volta, parlando di "gravità e estrema urgenza della questione carceraria".

Ma "quanto durerà l’emozione per le parole che Napolitano ha pronunciato sulla situazione carceraria italiana?" Se lo chiede Michele Brambilla su lastampa.it, nel primo di una serie di articoli sul carcere. Il giornalista nei giorni scorsi ha visitato la casa di reclusione Due Palazzi di Padova e si è convinto che, come dice il titolo del suo articolo, per le carceri l'unica soluzione è il lavoro.

 

lastampa.it, venerdì 7 giugno, Carceri, l’unica soluzione è il lavoro (M. Brambilla)

 

MILANO

Vediamo quanto dura l’emozione per le parole che Napolitano ha pronunciato sulla situazione carceraria italiana. Il presidente ha detto che siamo in emergenza e che la questione-carceri deve rientrare “tra le priorità” di questo governo.

Quante volte abbiamo sentito appelli di questo tono. Ma quasi sempre ce ne siamo dimenticati rapidamente. Prova ne sia il fatto che continuiamo a detenere il primato europeo per il sovraffollamento: 66 mila detenuti contro una capienza di 45 mila.

Ma il problema non è certo solo il sovraffollamento. Se si pensasse che è solo quello, il governo potrebbe risolverlo rapidamente con un indulto e/o un’amnistia; e, in un tempo più lungo, con la costruzione di nuove carceri. Servirebbe a qualcosa? No, a nulla. Il primo provvedimento avrebbe un effetto di pochi mesi, oltre che altre ripercussioni che si possono facilmente immaginare.; il secondo sarebbe un’illusione, perché se non cambia il modo di concepire il carcere, quando avremo carceri per 66 mila posti, finiremmo con il riempirle con 90 mila detenuti.

Urgente è invece che si metta chi è in carcere nelle condizioni di fare davvero un percorso che lo porti a cambiare vita. Migliorando le sue condizioni di detenzione, ma soprattutto facendolo lavorare. E lavorare davvero: non con i cosiddetti “lavori domestici” (pulizie interne eccetera) che attualmente occupano, e molto saltuariamente, 11.700 detenuti.

No, parliamo di lavoro vero. Lavoro che le aziende portano all’interno del carcere. Lavoro pagato con uno stipendio: parte del quale - a proposito di rieducazione - viene impiegato per pagare vitto e alloggio al carcere.

Solo un lavoro così, un lavoro che non sia semplice occupazione del tempo, può restituire una dignità e una prospettiva al detenuto. Un lavoro che gli evita di stare a marcire in cella tutto il giorno accumulando rancore e sentendosi vittima anziché colpevole; sentendosi destinatario di diritti, e non del dovere di riparare, per quanto possibile, al male commesso.

Ma sapete, su 66 mila detenuti, quanti hanno la possibilità di lavorare all’interno del carcere? Ottocento. Solo ottocento. Eppure non ci vorrebbe molto per far crescere questo numero. Ma la burocrazia, anche qui, sta strangolando uomini e imprese.

Il lavoro ai detenuti non toglierebbe il posto ai disoccupati italiani, perché farebbe rientrare in Italia molte produzioni che le nostre aziende hanno delocalizzato all’estero. E chi pensa che i detenuti non meritino un’opportunità del genere, pensi almeno a questo: al fatto che chi non lavora - o fa solo “lavori domestici” - ha una recidiva, quando esce a fine pena, del 68 per cento (dato ufficiale e quindi sbagliato per difetto, perché calcolato solo sui reati scoperti, che sono solo il 21 per cento di quelli commessi). Chi invece ha lavorato in carcere, per la maggioranza una volta uscito non ricade più nella vita del passato.

Ecco perché una detenzione umana è utile a tutti, anche a migliorare la sicurezza “fuori”; e quindi anche a noi che appunto “stiamo fuori”, e pensiamo di non essere parte del problema.

 

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