L'eredità di Francesco Di Cataldo. Il lavoro dei detenuti abbatte la recidiva

Il carcere di San Vittore è stato intitolato a Francesco Di cataldo, vicecomandante della polizia penitenziaria della casa circondariale milanese, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, perché uomo del dialogo che si prodigò per dare ai detenuti la possibilità di svolgere un lavoro. La sua attualità nel ricordo vivido del figlio Alberto.

 

Caro papà, grazie a te oggi si lavora in carcere

Corriere della sera, 25 ottobre 2017

 

Caro papà, quella sera entrasti in casa con un grosso interruttore elettrico. Lo passavi da una mano all’altra e lo guardavi felice come un bambino. Perché quell’euforia? Cominciai a capirlo mesi dopo. E precisamente da quando, alle 7 e 10 del 20 aprile 1978 mi affacciai al balcone e ti vidi disteso per terra, supino. Scesi le scale appena in tempo per vedere i tuoi occhi verde azzurro sgranati. Un lenzuolo bianco scese sul tuo corpo e noi due non potemmo più parlarci.

Tutta colpa di quell’interruttore. E delle prime lavorazioni manuali che dall’esterno si introducevano in carcere. Nelle mani impazienti dei detenuti di San Vittore, il carcere di cui eri vicecomandante e punto di riferimento per molti, l’assemblaggio manuale rafforzava la tua convinzione di sempre: il lavoro. Il lavoro è la principale attività per la rieducazione dei condannati. Molti tuoi colleghi condividevano, qualcuno diffidava ma tu andasti avanti. Caparbio come solo tu sapevi essere e come ben dissimulavi, metodico, col tuo atteggiamento gentile e disponibile verso tutti: detenuti e agenti, magistrati, avvocati e operatori del carcere. Potevi tu in quei giorni, con quell’interruttore in mano e con Aldo Moro “in prigione”, duellare con chi aveva aperto la campagna contro le carceri? Con chi, misero e fanatico, ti spacciava torturatore di detenuti come scrissero nel volantino di rivendicazione le Brigate rosse?

Che smarrimento e che disperazione nei mesi successivi. In casa nostra come a San Vittore. Noi figli con la mamma barcollammo parecchio e alcuni agenti non ressero il trauma e si congedarono. Pareva tutto perduto. Poi iniziammo a ricostruire, perché poco sapevamo visto quanto eri riservato, i tuoi 28 anni ininterrotti a San Vittore. Dal viaggio di studio penitenziario in Inghilterra, Portogallo e Spagna nel maggio del 1953 alla paziente realizzazione di migliori condizioni sanitarie dentro il carcere. Sei stato maresciallo e hai anche diretto la farmacia, hai preso il diploma di infermiere e pure il brevetto di tecnico radiologo. E poi il lavoro in carcere: gli apparati elettrici, le biro e le altre lavorazioni. Un’attività incessante, con cui tu, insieme a molti tuoi colleghi del tempo, hai gettato le basi solide per il dopo. È stato un crescendo, papà. A fianco di San Vittore è nato il carcere di Opera e poi quello di Bollate. Dentro le carceri milanesi ci sono panettieri, florovivaisti e liutai. Meccanici, muratori e falegnami. E cuochi, naturalmente. Con tanto di ristorante dentro il carcere di Bollate. Addirittura, e sicuramente sorrideresti divertito, le detenute di San Vittore cuciono le toghe per i magistrati.

Non è stato facile e moltissimo resta ancora da fare. Ma avevi ragione tu. Il lavoro ai detenuti abbatte la recidiva da oltre il 70% a meno del 19%. In alcuni casi al 12%. A Milano. Lavoro vuol dire meno detenuti in carcere. Minor spesa pubblica e più sicurezza. Che onore al concittadino Cesare Beccaria, ai suoi delitti e alla sua concezione delle pene.

Milano... la tua amata Milano. E dove potevi sbarcare se non qui, nel 1950, appena 24enne provenendo da Barletta? Da quella città pugliese dove ogni estate abbiamo trascorso vacanze di indimenticabile allegria ma sempre dominate dal solito imperativo: il lavoro! Noi, da milanesi in vacanza, ci scappava di fermarci a rimirare il mare o il magnifico Castello Svevo. Subito zii e cugini ci riprendevano stupiti: uagliò, embè, che stai a fare?

Bisognava cimentarsi comunque in qualcosa: lavorare in campagna, aiutare lo zio in negozio o fare la spesa. Per forza. Quella forza originaria fatta di intelligenza e di tanta perseveranza che hai portato dentro San Vittore. Un lavoro tenacissimo e silenzioso, lontano da quei gesti eclatanti e momentanei, spacciati come risolutivi di cui tanto diffidavi. Il lavoro di lunga durata, l’unico che lascia tracce che altri, dopo di noi, non possono cancellare. Per me, dirigente pubblico, è tuttora l’insegnamento più potente che mi hai lasciato.

Oggi Milano è un esempio, non solo nazionale, del tentativo permanente di rieducare i detenuti. Vi partecipano le carceri, gli altri enti pubblici e un numero impensabile di associazioni, cooperative e singoli volontari. Dentro questo immenso, faticoso e necessariamente incompleto lavoro trovo sempre una traccia di te. Passando da Piazza Filangieri 2, un simbolo di Milano come il Carcere di San Vittore si chiamerà, da oggi, San Vittore-Francesco Di Cataldo. Credo che tu te lo sia meritato. Sei stato sicuramente un bravo funzionario dello Stato. E sei stato un buon padre. Assente da quarant’anni, ma sempre presente. Fino a togliere il respiro.

Corriere della sera, 25/10/2017

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